Prodotto da Sam Mendes, seconda prova alla regia di Nick Murphy, (del 2011 la ghost story 1921 – Il mistero di Rookford), adattamento della serie della BBC Conviction, sceneggiata dallo stesso Bill Gallagher, Blood è un thriller che indaga i binomi crimine/colpa, giustizia legale/legge naturale, morale/istituzione, paura/senso del dovere.

I fratelli Joe (Paul Bettany) e Chrissie (Stephen Graham) Fairburn sono due agenti dell’anticrimine di una cittadina britannica, che hanno seguito le orme del padre (Brian Cox), ex capo della polizia malato di Alzheimer, ma non per questo meno rispettato. I due, con caratteri molto diversi, il maggiore, Joe, iperprotettivo ma al tempo stesso arrogante, e il secondogenito Chrissie, insicuro e devoto al fratello, devono affrontare il brutale omicidio di una ragazzina. Joe ha una figlia adolescente e l’istinto paterno unito al senso di colpa per un caso precedente, lo portano ad un eccessivo coinvolgimento emotivo. Le indagini conducono a Jason Buliegh, ex detenuto con precedenti per molestie, che viene però rilasciato temporaneamente per mancanza di prove. I fratelli decidono così di farsi giustizia da soli mettendo in pratica un vecchio metodo paterno. Per estorcere una confessione a Buliegh lo portano su un’isola al largo della costa. Ma la situazione sfugge al loro controllo cambiando il loro destino.

All’inizio si viene catturati dalle immagini di George Richmond, operatore di ripresa navigato (Biancaneve e il cacciatore, War Horse, Nine), qui nel ruolo di direttore della fotografia. Sembra di scorgere quasi un omaggio alla serie fotografica di Gianni Berengo Gardin in Gran Bretagna nell’inquadratura della macchina sulla spiaggia. Colori cupi, tonalità del grigio, nuvole che generano incredibili movimenti di luce sulle acque attorno ad un’isola situata nell’estuario del fiume Dee, tra il Galles e il Wirral, solcata da un vento implacabile che soffia gelido e dalla marea che si porta via le colpe. L’ambientazione evocativa rimane però scenografia senza messa in scena. L’isola è un non luogo, lontano dalla civiltà e dalla morale, in cui non valgono le leggi della terraferma ed è rimesso all’uomo il giudizio sui peccati del suo simile, dove “l’umana, troppo umana” passione prende il sopravvento “al di là del bene e del male”.

Il delitto fa da sfondo ad una vicenda di coscienza che coinvolge i due fratelli troppo superficialmente sviscerata e banalmente rappresentata da una sceneggiatura limitata all’indispensabile. Ci ha provato Nick Murphy, il punto di partenza, “l’idea che chi riesce a sfuggire ad un crimine diventa la persona più perseguitata dal crimine stesso”, era intrigante, ma i pezzi del puzzle si incastrano a fatica e la foga narrativa, a volte dispersiva, non lascia spazio all’introspezione psicologica creando vuoti incolmati. I personaggi, seppur sostenuti da significative interpretazioni, sembrano a tratti caricaturali, innaturali. Si rimane perplessi nel vedere i poliziotti commettere un crimine e seminare più indizi di un dilettante. E’ anche vero che, se la giustizia umana è spesso fallibile, la furia delle Erinni non lascia scampo. Infatti, Joe (Paul Bettany) fa la fine di Oreste, dilaniato dal rimorso, al limite della pazzia. L’unico personaggio che rimane fedele al genere è quello interpretato da Mark Strong, Robert Seymour, collega del Dipartimento di polizia che incarna la razionalità, è l’ago della bilancia che scinde il bene dal male.

Giocando a spot-the-equalities con Blood e Mystic river si capisce il paragone dell’ “Hollywood Reporter”. La trama: due omicidi, quello di una ragazza e uno per vendetta. Tre uomini: due schiavi delle emozioni, il terzo, la coscienza razionale. In entrambi viene giustiziato l’uomo sbagliato e i colpevoli risultano essere gli stessi. Anche nella locandina il trio di attori protagonisti spicca sull’elemento acquatico in primo piano. Ma Blood sembra essere la brutta copia del capolavoro di Eastwood.



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